Noi questa notizia l’abbiamo sentita arrivare come un colpo secco al diaframma. D’Angelo – Michael Eugene Archer, per chi lo ha seguito fin dagli esordi – non c’è più. Cinquantuno anni appena, una battaglia lunga contro la malattia, un’eredità artistica che continua a vibrare nelle cuffie e nei corpi. Vi torna alla mente una linea di basso, un battito sporco, la voce che sussurra e incendia? È il suo modo di stare al mondo: pochissimi dischi, nessun rumore superfluo, il suono al centro. Sta tutto lì, e continua.

Ci prendiamo il tempo per raccontarvelo bene. Non solo cosa è successo, ma perché ciò che ha creato resta, come un campo magnetico che non allenta mai la presa. Dalla maturità soul di Brown Sugar al laboratorio ritmico di Voodoo, fino alla scossa politica di Black Messiah: tre album bastano a ridefinire un genere se dietro c’è una visione così netta. E poi singoli che hanno cambiato l’idea stessa di sensualità in musica, performance rare e preziose, e quel ritorno sulle colonne sonore che ha riaperto un dialogo con nuove generazioni.
La notizia e il contesto umano
D’Angelo è morto il 14 ottobre 2025, a 51 anni, dopo una lotta riservata contro un cancro al pancreas. La scomparsa è stata annunciata dalla sua famiglia con parole semplici e dolorose; i tributi sono arrivati in poche ore, dai colleghi di una vita ai fan che hanno trovato nelle sue canzoni un rifugio. Non servono dettagli superflui: conta la data, conta la causa, conta il rispetto per una storia che ha chiesto silenzio quando il rumore diventava troppa pressione.
C’è un filo personale che attraversa quest’ultimo anno: a marzo è morta anche Angie Stone, compagna di un tratto importante della sua vita e madre del primogenito. Un dolore dentro l’altro, che chiude un cerchio umano complesso. Oggi restano tre figli e una comunità musicale intera che si ritrova orfana di un timbro, di un tocco sulla tastiera, di una grammatica del groove che era insieme carezza e scossa.
Pochi dischi, rivoluzione compiuta
Tre album in tre decenni non sono timidezza: sono selezione feroce. Brown Sugar (1995) ha aperto una porta. Soul classico, sì, ma filtrato da hip hop, gospel, jazz. Una band che respira, arrangiamenti elastici, la voce che non spinge mai dove non serve. Voodoo (2000) ha ribaltato i piani: tempi spostati, batteria che inciampa e poi raddrizza, basso che scava, jam nate a Electric Lady con una costellazione di musicisti che chiameremo per semplicità “famiglia”. È lì che il neo‑soul smette di essere etichetta e diventa laboratorio.
Quattordici anni dopo, Black Messiah (2014) arriva come intervento nel mondo reale. Non solo grande musica: è un gesto. Ritmi funk e stratificazioni armoniche al servizio di testi che guardano fuori dal perimetro privato. In mezzo scorrono i brani‑chiave: Lady, Untitled (How Does It Feel), Really Love. Quattro Grammy in carriera – tra cui Best R&B Album per Voodoo e Black Messiah, Best Male R&B Vocal Performance per Untitled e Best R&B Song per Really Love – sono la fotografia istituzionale di qualcosa che, per chi ascolta, ha contato anche di più: una sensibilità che ha spostato l’asticella del genere.
Un suono: carne, memoria, spiritualità
Come lo si riconosce dopo due misure? Dal respiro. Il piano elettrico che apre e lascia spazio, la cassa che non picchia al centro ma dietro il battito, i cori come trama e non come fiocco. Viene dalla chiesa – il primo strumento è stato il pianoforte in comunità – e attraversa la strada, mescolando Prince e Sly Stone, James Brown e hip hop di scuola nativa. Il tutto senza perdere una goccia di intimità.
Al centro, l’idea di collettivo: prove, dialoghi, scoperte condivise. L’esperienza dei Soulquarians ha fatto nascere brani che oggi sono capitoli di manuale. Non gerarchie, ma ascolto reciproco. È così che si spiega quella sensazione di band “viva” in studio, il margine di rischio tenuto aperto, il gusto di un fill storto che poi diventa inevitabile. Se vi chiedete perché questi brani non invecchiano, la risposta sta spesso in quei dettagli.
Gli ultimi fuochi: colonne sonore, palchi scelti, un canto finale
Dopo Black Messiah le apparizioni sono poche, mirate, intense. Unshaken per Red Dead Redemption 2 riporta la sua voce dentro una narrazione epica: una ballata sospesa che ha trovato casa anche tra chi non lo aveva mai ascoltato prima. Nel 2021, una serata “senza avversari” ad Apollo per VERZUZ: più che una gara, un abbraccio alla propria storia musicale, con ospiti scelti e un repertorio che scorre come conversazione tra amici.
Nel 2024 arriva I Want You Forever, firmata con Jeymes Samuel e Jay‑Z per The Book of Clarence: nove minuti e oltre di mantra amoroso, con la voce a tessere un cerchio ipnotico. Non serve stabilire se sia un addio consapevole; è un brano che oggi suona come saluto, ma soprattutto come conferma: lui parlava poco, la musica diceva tutto.
Dove cominciare (o ricominciare) ad ascoltare
Se siete cresciuti con lui, sapete già cosa cercare. Se lo incontrate adesso, provate un percorso semplice e pieno. Brown Sugar (la canzone) per entrare, The Root per sentire quanto può essere profondo un groove anche quando rallenta. Poi fermatevi su Untitled: non è solo un video diventato simbolo, è una lezione di dinamica, di spazio lasciato al silenzio tra le note. Chiudete la prima tappa con Devil’s Pie per capire la sua idea di funk.
Riaperte le cuffie, passate a Really Love: archi, chitarra, voce, tutto al posto giusto. Poi Till It’s Done (Tutu) per l’intreccio tra pulsione ritmica e coscienza civile. E infine quelle due tracce che parlano al presente: Unshaken e I Want You Forever. Se preferite un’immagine, pensate a tre cerchi: corpo, anima, mondo. Dentro la sua musica stanno insieme, senza fare rumore di teoria.
Un’eredità che ci riguarda
Non era prolifico, non cercava la luce fissa dei riflettori, ha sbagliato, è caduto, si è rialzato quando ha avuto di nuovo qualcosa da dire. Ci riconosciamo in questa misura umana. La sua eredità oggi è nelle scelte dei produttori che mettono la batteria un filo indietro per far respirare il basso, nei cantautori che intrecciano intimità e impegno, nei musicisti che preferiscono una take “viva” a cento take perfette e sterili. Se lo ascoltate adesso, in questa giornata pesante, la musica farà il resto.
Noi, qui, ci fermiamo un momento. Lasciamo che sia una nota lunga a raccontare tutto. How does it feel? Vale ancora la domanda. E ognuno, a bassa voce, si darà la propria risposta.