La gioia del ritorno è esplosa il 13 ottobre 2025, quando gli ultimi 20 ex ostaggi israeliani hanno riabbracciato i loro cari. Ora, però, comincia il tratto più impegnativo: la ricostruzione interiore, lenta e necessaria, dopo 737 giorni di prigionia e paura. È qui che prende forma il vero percorso di guarigione.

Il giorno dopo la liberazione: cosa cambia davvero
La liberazione segna una svolta collettiva e personale. Secondo quanto riferito all’agenzia Adnkronos Salute dallo psicologo clinico Udi Oren, presidente di EMDR Israele ed ex numero uno di EMDR Europa, nelle prime settimane i sopravvissuti affronteranno incubi, flashback, insonnia, timore di restare soli e difficoltà a uscire di casa. L’obiettivo realistico, se ben seguiti, è far ripartire la quotidianità nell’arco di 3-4 mesi, pur sapendo che il “ritorno alla vita” non è automatico e richiede un supporto mirato in psico-traumatologia.
Il contesto è straordinario anche sul piano storico: il rilascio degli ultimi 20 ostaggi vivi ha chiuso un capitolo che durava da oltre due anni ed è arrivato nell’ambito di un accordo di cessate il fuoco. Lo hanno documentato testate internazionali come Reuters, The Guardian e AP, ricostruendo tempi, scambi di prigionieri e la commozione delle piazze, da Tel Aviv a molte città israeliane. Questi passaggi non cancellano il dolore, ma lo collocano dentro una cornice condivisa che aiuta a dare un senso al dopo.
Una ferita lunga 737 giorni: il peso del trauma prolungato
Oren parla di un lavoro “lunghissimo e difficilissimo” perché non si tratta di uno o due episodi traumatici, ma di un’esposizione prolungata a condizioni estreme. Le persone liberate riferiscono privazioni di cibo e acqua, permanenza in tunnel sotterranei con poca aria e al buio, oltre a narrazioni manipolatorie che le facevano sentire dimenticate dallo Stato di Israele. Questo accumulo di fattori mina sonno, sistema nervoso e senso di sicurezza. Smontare quel vissuto richiede competenze specialistiche, continuità terapeutica e un orizzonte di pazienza.
Il progresso, prevede Oren, sarà inizialmente lento. In alcune situazioni, nelle prime settimane, può entrare in scena anche un supporto farmacologico, pur restando preferibile puntare sui percorsi psicoterapeutici. Più sedute ravvicinate di EMDR e di interventi mirati saranno possibili, più rapido potrà essere l’allentarsi di quella “nuvola nera” che avvolge i ricordi e i pensieri. La nota di speranza, sottolinea lo specialista, è l’apparente buona condizione fisica e la giovane età di molti liberati, che potrà favorire la ripresa se sostenuta in modo corretto.
Terapie, strumenti e prove: dove porta l’EMDR
Nel suo ragionamento, Oren indica come cruciale l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), una metodologia che lavora sulla desensibilizzazione e rielaborazione dei ricordi traumatici. L’Organizzazione mondiale della sanità include l’EMDR tra gli interventi raccomandati per il disturbo post-traumatico da stress negli adulti, insieme a diverse forme di CBT a focus traumatico e gestione dello stress, con una raccomandazione aggiornata e basata su evidenze di qualità moderata. Non una bacchetta magica, ma uno strumento solido quando applicato da clinici formati.
Le stesse linee guida della WHO ricordano cautela nell’uso precoce di benzodiazepine nelle fasi immediatamente successive a un evento potenzialmente traumatico, e segnalano la necessità di percorsi psicologici strutturati e supervisionati. In questo quadro, la scelta di più sessioni ravvicinate può diventare decisiva per spezzare il circuito della rievocazione intrusiva e della paura, e per restituire ai sopravvissuti una base emotiva su cui ricostruire relazioni, lavoro e autonomia.
La rete che regge: team clinici e famiglie sotto pressione
Intorno agli ex ostaggi si muove un’ampia squadra multidisciplinare: medici di varie specialità, psicologi, psicoterapeuti, psichiatri. Oren insiste sulla centralità di un sostegno parallelo alle famiglie, che negli ultimi due anni hanno oscillato tra disperazione e mobilitazione pubblica, facendo pressione su governo e comunità internazionale. Questo doppio binario – cura dei sopravvissuti e accompagnamento dei loro congiunti, compresi coloro che piangono un ritorno solo simbolico – è la condizione perché la guarigione non si arresti.
L’energia sociale che ha attraversato Israele nei giorni della liberazione, dalle celebrazioni a Tel Aviv ai racconti dei quartieri colpiti, racconta un tessuto civile che vuole farsi argine alla solitudine post-traumatica. Le cronache internazionali hanno descritto la gioia e la compostezza di incontri attesi per oltre settecento giorni, insieme alla consapevolezza che restano domande aperte – compreso il recupero delle salme dei deceduti – che aggiungono complessità emotiva al percorso clinico.
Tempi e aspettative: tra speranza e realtà
L’orizzonte dei 3-4 mesi evocato da Oren non promette miracoli; indica piuttosto una ripresa funzionale della vita quotidiana, compatibilmente con il peso di ciò che è accaduto. È un traguardo possibile se sostenuto da interventi specifici sul trauma, da una rete familiare istruita a riconoscere i segnali di allarme e da una comunità che sappia accogliere esitazioni e ricadute. La normalità non torna da sola: va ricreata, passo dopo passo, con metodo e senza isolarsi.
Molti dei liberati sono giovani e, a un primo sguardo clinico, in condizioni fisiche che lasciano spazio a una buona prognosi. Questo non attenua la profondità delle ferite, ma aumenta le chance che la memoria traumatica perda potere con il procedere delle terapie. L’essenziale, ripetono gli specialisti, è evitare il silenzio e l’autosufficienza: chiedere aiuto presto, organizzarlo in modo continuativo, pretendere standard elevati di cura e monitoraggio. È così che la “nuvola” può diradarsi.
Domande chiave per orientarsi subito
Quanto durerà davvero la ripresa? La proiezione condivisa dagli specialisti coinvolti è di tre-quattro mesi per tornare a una quotidianità più stabile, a patto di intraprendere fin da subito un percorso psicologico strutturato, con cadenza ravvicinata e guidato da professionisti esperti di trauma. Le prime settimane possono sembrare disordinate – incubi, ipervigilanza, evitamento – ma sono prevedibili e trattabili se la presa in carico è tempestiva e continua, con l’obiettivo di restituire autonomia e sicurezza di base.
L’EMDR è la scelta migliore? Nelle parole di Udi Oren, l’EMDR è il cardine per casi come questi; sul piano delle evidenze, l’Organizzazione mondiale della sanità lo include tra gli interventi raccomandati per il DPTS negli adulti insieme alla CBT a focus traumatico e ad altri approcci strutturati. La differenza la fa la qualità del setting: terapeuti formati, supervisione, aderenza ai protocolli e frequenza adeguata delle sedute, per trasformare i ricordi intrusivi in informazioni integrate e meno disturbanti.
Serviranno anche farmaci? Può accadere che, nelle prime settimane, si valutino terapie farmacologiche di supporto per modulare sintomi gravi; i clinici, tuttavia, tendono a privilegiare gli interventi psicoterapeutici e a usare i farmaci con cautela e indicazione precisa. Le linee guida internazionali invitano a grande prudenza con alcune molecole nella fase acuta e a integrare sempre il trattamento farmacologico dentro un percorso psicologico ben delineato e monitorato.
Chi aiuta i familiari? La stessa rete che sostiene i sopravvissuti – medici, psicologi, psicoterapeuti, psichiatri – deve prendersi cura anche dei nuclei familiari, che in questi due anni hanno alternato disperazione e mobilitazione civile. Accompagnarli significa dare linguaggio al dolore, offrire strumenti per affrontare ricorrenze, notti difficili e comunicazioni complesse, e includerli come alleati attivi nella riabilitazione, senza caricarli di responsabilità cliniche che non competono loro.
Un impegno che continua: la nostra riflessione
Questo tempo chiede rigore e umanità. Le parole degli specialisti, le cronache dei rilasci e le linee guida internazionali compongono un mosaico che parla di resilienza, ma anche di lavoro quotidiano, paziente e condiviso. La nostra bussola resta la verifica dei fatti e l’attenzione alle persone: raccontare la sofferenza senza esibirla, seguire l’evidenza senza perdere empatia. Il ritorno, per chi è stato prigioniero così a lungo, è un processo: credere in quel processo, e pretenderne la qualità, è una responsabilità di tutti.