La morte di Roei Shalev, sopravvissuto al massacro del Nova Festival, arriva come un colpo che toglie il respiro. Aveva 29 anni. Poche parole affidate ai social, un addio sofferto, poi la corsa degli amici per trovarlo e la scoperta della sua auto avvolta dalle fiamme nei pressi di Netanya. Una tragedia che interroga tutti.

Un dolore che non si è spento
La sequenza delle ultime ore è stata ricostruita con lucidità dalle testate internazionali: un messaggio in cui Shalev confessava di non riuscire più ad andare avanti, le telecamere di una stazione di servizio che lo riprendono mentre riempie una tanica, quindi l’auto incendiata rinvenuta vicino a Poleg Beach, all’uscita dell’autostrada. La polizia israeliana ha aperto un’indagine, mentre i soccorritori lo hanno trovato senza vita all’interno del veicolo. È accaduto nella notte di venerdì 10 ottobre 2025; il corpo è stato recuperato sabato 11 ottobre, come riportato da più fonti.
Le ore precedenti erano state scandite dall’angoscia di parenti e amici, impegnati in una ricerca febbrile dopo quei messaggi d’addio. La famiglia ha poi confermato la morte chiedendo riservatezza. Nelle parole delle persone più vicine affiora una costante: Roei non si era mai davvero rialzato dal trauma del 7 ottobre. Anche le organizzazioni dei sopravvissuti hanno espresso cordoglio, ricordandolo come punto di riferimento di una comunità che continua a misurarsi con ferite aperte e silenzi difficili da colmare.
Sette ore che hanno cambiato tutto: il ricordo del 7 ottobre
Nell’alba violata del 7 ottobre 2023, Shalev danzava con la compagna Mapal Adam e con l’amica Hilly Solomon. I razzi hanno zittito la musica, la fuga, poi il nascondiglio sotto un’auto. Sono stati scoperti e crivellati di colpi. Roei è stato ferito alla schiena, ha finto di essere morto e ha atteso, immobile, per sette ore, fino all’arrivo dei militari. Accanto a lui giacevano Mapal e Hilly, uccise. È un racconto che lui stesso aveva condiviso, con la sobrietà di chi porta addosso una storia più grande di sé.
Nel giro di pochi giorni, il crollo: la madre di Roei si è tolta la vita, aggiungendo perdita a perdita. In seguito Shalev aveva descritto mesi di incubi, flashback e insonnia, e aveva provato a reagire rendendo omaggio alla memoria di Mapal: tra i gesti, il rinominare la loro attività in “Mapal Cafe”, un tributo affettuoso e ostinato alla donna che amava. La sua testimonianza pubblica restava però intrisa di fatica, un equilibrio precario tra il desiderio di vivere e un dolore che non si placava.
Il tessuto lacerato di una comunità
L’associazione Nova Tribe Community, nata all’indomani dell’attacco per sostenere migliaia di sopravvissuti e le famiglie in lutto, ha abbassato il capo “con i cuori infranti”, dipingendo Shalev come uno dei pilastri della rete di sostegno: non solo presenza costante, ma anche esempio di leadership, dal campo di basket alla capacità di farsi carico degli altri. È un lutto collettivo che si somma a molti altri, in una comunità che cerca di ricostruire senso e relazioni.
Il lavoro della Nova Tribe si muove su più piani: salute mentale, accesso ai diritti, memoria condivisa, resilienza. Laboratori, momenti di guarigione, iniziative di supporto psicologico e pratico procedono di pari passo con l’impegno a non lasciare indietro nessuno. La missione è dichiarata con chiarezza dall’organizzazione, che ha costruito programmi strutturati nel tempo e in collaborazione con professionisti: un presidio di umanità in un panorama fatto di traumi che non hanno un calendario per “passare”.
Tra dati contestati e rischio reale: l’onda lunga del trauma
Intorno ai sopravvissuti del Nova si è acceso un dibattito sui numeri dei suicidi seguiti al 7 ottobre: in una seduta alla Knesset, un testimone parlò di “decine” di casi. Il Ministero della Salute israeliano ha però smentito con fermezza la cifra di circa cinquanta, definendola non supportata dai riscontri delle strutture e delle associazioni che seguono i reduci del festival. Restano, invece, l’allarme per il rischio suicidario elevato in gruppi specifici e la constatazione, condivisa dagli esperti, che il disagio sia profondo e persistente.
Nel frattempo, la cronaca ha già raccontato altri drammi individuali, come quello di Shirel Golan, giovane sopravvissuta morta nell’ottobre 2024 dopo un anno di battaglia con i sintomi del disturbo post‑traumatico. Le autorità hanno più volte invitato a non semplificare i nessi tra eventi traumatici e suicidio, fenomeno complesso e multifattoriale; ma la necessità di supporto, per molti, è evidente e urgente. È su questo crinale che si misura, ogni giorno, la responsabilità pubblica e civile.
Le voci, il silenzio, il bisogno di ascolto
Nel ricordo che oggi si stringe attorno a Roei Shalev, emergono due movimenti opposti e insieme complementari: l’onda affettiva di amici e compagni di viaggio, e il silenzio duro di chi ha portato la propria sofferenza fino all’ultima soglia. Gli amici lo descrivono come presenza calda, capace di dare forza agli altri mentre, dentro, la marea era alta. Il paradosso di molti sopravvissuti è tutto qui: sostenere e sostenersi, mentre si lotta per ritrovare un punto stabile su terreno franoso.
Per chi resta, la spinta è quella di non normalizzare la solitudine né delegare la cura all’astrazione delle parole. Le testimonianze raccolte nei mesi dalle principali testate – da Sky News a Ynet, fino al Jerusalem Post – convergono sulla stessa linea: servono presenza, servizi accessibili, continuità terapeutica; serve una comunità che riconosca, senza diffidenza, la dignità del dolore e il diritto a chiedere aiuto. In questo modo, i nomi non restano solo statistiche.
Domande essenziali, risposte chiare
Dove e quando è stato trovato il corpo di Roei Shalev? Secondo le ricostruzioni giornalistiche, l’auto è stata individuata in fiamme nei pressi di Poleg Beach, a Netanya, lungo la Strada 2 vicino allo svincolo di Udim. L’intervento di vigili del fuoco e soccorritori è avvenuto nella notte tra venerdì 10 ottobre e sabato 11 ottobre 2025, quando il corpo è stato recuperato. Le autorità hanno aperto un’indagine per accertare ogni passaggio.
Che cosa aveva condiviso Shalev sui social prima di morire? Poche righe, dal peso specifico enorme: parole di resa alla sofferenza e una richiesta di perdono. Quelle frasi hanno messo in allarme amici e familiari, che si sono subito mobilitati. Le telecamere a circuito chiuso lo hanno poi ripreso in una stazione di servizio mentre riempiva una tanica, dettaglio che ha contribuito a ricostruire gli ultimi spostamenti.
Qual è stata la reazione della comunità dei sopravvissuti del Nova Festival? L’associazione Nova Tribe Community ha espresso un dolore profondo, ricordando Shalev come un punto di forza e un esempio di dedizione. Nei loro messaggi emerge l’invito a prestare attenzione costante alla salute mentale dei sopravvissuti, delle famiglie e di chi vive ancora i segni del trauma, con un richiamo esplicito alla responsabilità collettiva.
Esistono dati ufficiali sui suicidi tra i sopravvissuti del Nova? Nel 2024, durante una seduta parlamentare, sono circolate stime elevate, poi contestate dal Ministero della Salute israeliano, che le ha definite non corroborate. Restano, però, segnalazioni su gruppi ad alto rischio e molti ricoveri per salute mentale: più che un numero definitivo, è la condizione di vulnerabilità a imporsi, chiedendo politiche e interventi stabili.
Quel che resta da fare, adesso
Dietro ogni cronaca ci sono vite che non tornano e vite che ogni giorno cercano di ricominciare. La storia di Roei Shalev racconta la potenza distruttiva del trauma e, insieme, la forza fragile della memoria. Non basta nominare il dolore: va accompagnato, riconosciuto, sostenuto. Le redazioni che hanno seguito il suo percorso e le associazioni impegnate sul campo convergono su un punto: l’urgenza di prendersi cura degli esseri umani prima dei numeri, prima delle etichette.
Da osservatori giornalistici che vivono la notizia come responsabilità civile, sentiamo il dovere di mettere al centro l’ascolto e la precisione. Le parole possono ferire o guarire: scegliamo che raccontino, senza sensazionalismo, cosa significa attraversare il dopo di una violenza collettiva. Perché, in fondo, a tenerci umani è la capacità di farci carico l’uno dell’altro, soprattutto quando la luce tarda a tornare.