Competenze, interoperabilità e servizi davvero accessibili: da qui passa la vera semplificazione. Nelle parole di Francesco Saverio Romano emerge un’urgenza che non è più rinviabile: formare la Pubblica Amministrazione per governare la trasformazione digitale, non subirla. E Palermo rilancia con “Camera del Futuro”, mettendo al centro imprese e cittadini.

Un bivio per la PA: competenze prima della tecnologia
La traiettoria è chiara e, insieme, impietosa: in Italia appena il 45,8% della popolazione possiede competenze digitali di base, a fronte di una media europea del 55,6%. È quanto rileva la Commissione europea nel rapporto 2024-2025 sullo Stato del Decennio Digitale, che invita i Paesi membri ad azioni rapide e coraggiose per centrare gli obiettivi al 2030. Il dato fotografa il cuore del problema: tecnologia senza persone formate non semplifica, complica. Anche l’uso dei servizi pubblici online arretra: nel 2024 ha interagito via Internet con la PA poco più di un italiano su due, ben al di sotto dei livelli europei, segnale di una diffidenza che si vince solo con competenze diffuse e servizi pensati davvero per l’utente finale.
È in questo contesto che il presidente della Commissione parlamentare per la Semplificazione, Francesco Saverio Romano (Noi Moderati), richiama la posta in gioco: viviamo un cambio d’epoca in cui la tecnologia non è più un’opzione. La sua lettura è netta: semplificare è difficile quando gli strumenti non sono compresi e quando la macchina amministrativa stratifica procedure invece di ripensarle. L’urgenza, allora, è formare competenze dentro la PA, non solo per saper usare i dati ma per metterli a disposizione in modo chiaro, affidabile e comprensibile a tutti. Un appello pragmatico, che misura la qualità dell’innovazione sulla quotidianità di cittadini e imprese, non sulle etichette.
Interoperabilità, la grande assente
La “dieta” digitale italiana soffre di una carenza strutturale: i sistemi che non si parlano tra loro. Avere molte piattaforme senza un disegno di interoperabilità rischia di moltiplicare i passaggi e, quindi, le frizioni. Romano lo ha detto senza giri di parole: non basta creare nuovi portali, occorre far dialogare quelli esistenti, condividere standard, evitare duplicazioni. È il punto che Bruxelles sottolinea con forza, indicando fra le priorità l’identità digitale, l’IT-Wallet e servizi pubblici “nativamente” interoperabili, così da ridurre i colli di bottiglia che oggi pesano su imprese e professionisti. Dove si è agito su uso, usabilità e connessioni tra banche dati, i risultati si vedono: sanità digitale, servizi per le imprese e progetti pilota sull’identità europea testimoniano progressi possibili quando il cantiere è guidato da obiettivi misurabili e condivisi.
La sovrapposizione tra vecchio e nuovo è il rischio più subdolo. In diversi Comuni la “versione digitale” replica il cartaceo, senza riprogettare passaggi, formulari, autorizzazioni. Il risultato è un doppio binario che appesantisce i tempi e alimenta sfiducia. Il nodo non è introdurre un altro strato tecnologico, ma semplificare il processo all’origine, eliminare ciò che non serve e allineare i ruoli tra uffici. La tecnologia diventa allora lo strumento per rendere tracciabile e trasparente ciò che prima era opaco, ma solo se l’architettura organizzativa — e le competenze — sono all’altezza del cambiamento.
L’esempio estone e la continuità dello Stato
Nelle sue conclusioni, Romano richiama un modello che abbiamo visto funzionare da vicino: Estonia. Lì la digitalizzazione è progetto di sistema e non elenco di piattaforme. Colpisce, soprattutto, la logica di continuità operativa: grazie alle “data embassy” in Lussemburgo, il Paese può garantire i servizi pubblici anche in caso di crisi sul territorio nazionale. Un messaggio che parla a tutti: sicurezza dei dati, governance e interoperabilità non sono capitoli separati, ma la stessa strategia. E non serve essere piccoli per adottarla; serve chiarezza di obiettivi e disciplina nell’esecuzione.
Il confronto con l’Estonia non è un esercizio di nostalgia tecnologica. È l’invito a copiare il metodo: identità digitale unica, registri che si parlano, principi di “minimizzazione” della burocrazia e infrastrutture pensate per resistere. Anche sul nostro fronte europeo le linee guida spingono proprio lì: usare meglio ciò che già c’è, evitare di moltiplicare i silos, costruire servizi “una volta per tutte” e riusabili. È la via maestra per dare sostanza alla parola semplificazione, riducendo tempi, costi e margini d’errore.
Sicilia, imprese e un progetto che accelera
A Palermo ed Enna la Camera di Commercio ha presentato “Camera del Futuro”, un percorso pluriennale costruito con InfoCamere per riportare innovazione e digitalizzazione al centro dei servizi alle imprese. Gli obiettivi sono concreti: esperienza d’uso radicalmente migliore, efficienza interna, riduzione dei tempi della burocrazia. Tra le novità, uno sportello digitale con videoconferenza, la possibilità di scambiare documenti, pagare e firmare da remoto, oltre a servizi self-service accessibili in ogni momento. Il progetto, presentato l’8 ottobre 2025, sancisce anche un cambio di tono culturale: dal “venire allo sportello” al “dialogare con l’ente” nel canale preferito, quando serve davvero.
Non è solo tecnologia. È anche un nuovo patto con il territorio: identificare bisogni reali, accompagnare le PMI nella transizione, colmare le distanze tra chi ha già adottato strumenti digitali e chi fatica a orientarsi. La Camera ha aggiornato anche la sezione “Camera Digitale”, dove l’assistente virtuale Salvo guida utenti e professionisti tra i servizi. È un esempio di come l’automazione possa liberare tempo agli operatori umani per i casi complessi, evitando code e rendendo prevedibili le risposte. Un piccolo laboratorio di semplificazione che misura i risultati su affidabilità, tempi e soddisfazione degli utenti.
Numeri, realtà e percezioni
Le frasi che più restano sono quelle che mettono in fila i dati. Romano richiama una soglia del 56% di “inclusione” digitale in linea con l’Europa; gli indicatori ufficiali, tuttavia, misurano altro e dicono che in Italia la quota di persone con competenze digitali di base è al 45,8%, dieci punti sotto la media UE. In parallelo, l’interazione online con la PA si ferma intorno al 55%, con un arretramento rispetto all’anno precedente. Sono scarti che non cambiano la sostanza del messaggio: senza formazione capillare, i grandi investimenti rischiano di non tradursi in semplicità per l’utente.
Il quadro produttivo conferma la necessità di correre: solo l’8-8,2% delle imprese ha adottato soluzioni di intelligenza artificiale, un valore sotto la media europea e distante dai competitor continentali. La stessa Commissione sollecita un salto di qualità su AI, cloud e big data, mentre insiste sulla formazione continua come condizione per rendere sostenibile la transizione. È un nodo che tocca direttamente le amministrazioni: senza personale aggiornato e percorsi di upskilling, neppure i progetti più promettenti riescono a scalare davvero.
Il nodo INPS e l’urgenza di formazione mirata
Nella sua analisi Romano cita un caso emblematico: l’INPS, con decine di migliaia di dipendenti e una galassia di piattaforme, rischia di produrre “superfetazioni” tecnologiche se gli strumenti non sono governati da regole chiare e compiti definiti. Il riferimento numerico alla forza lavoro trova riscontro nei documenti ufficiali sul personale, che fotografano un organico nell’ordine delle 25 mila unità a fine 2024. Qui il punto non è la quantità di software, ma la loro orchestrazione: architetture coerenti, interoperabilità, monitoraggio d’uso e, soprattutto, formazione strutturale per chi ogni giorno deve far funzionare i servizi.
Anche l’Europa, nelle sue raccomandazioni, insiste su una ricetta semplice e impegnativa: rafforzare la preparazione digitale in tutte le fasce della popolazione, migliorare l’offerta educativa e potenziare aggiornamento e riqualificazione dei lavoratori pubblici. La semplificazione che promette risultati è quella che mette l’utente al centro, standardizza dove serve e misura l’efficacia con indicatori chiari: tempi di risposta, tasso di completamento delle pratiche, utilizzo reale dei servizi. È una rivoluzione organizzativa prima che tecnologica, che richiede responsabilità diffuse e leadership riconoscibile.
Domande secche, risposte chiare
Qual è oggi il vero punto debole italiano? Le competenze: meno di un italiano su due possiede abilità digitali di base, mentre la media europea è dieci punti più alta. Questo divario si riflette sull’uso dei servizi online e sulla competitività delle imprese. Colmare il gap non è un vezzo statistico ma una condizione per rendere la PA davvero accessibile, rapida e affidabile nella vita quotidiana di cittadini e professionisti.
Cosa significa davvero interoperabilità? È la capacità dei sistemi di scambiarsi dati in modo sicuro e automatico, evitando che l’utente debba ripetere mille volte le stesse informazioni. Senza interoperabilità, ogni piattaforma resta un’isola e la burocrazia si moltiplica. Con standard condivisi, identità digitale e processi disegnati “end-to-end”, i servizi diventano prevedibili, tracciabili e più semplici, riducendo tempi di attesa ed errori che oggi scoraggiano l’uso del canale digitale.
Perché guardare all’Estonia nonostante le differenze? Per il metodo: architetture comuni, registri interoperabili, sicurezza pensata per resistere alle crisi. Le “data embassy” mostrano come garantire continuità dei servizi anche in scenari estremi. Non si tratta di dimensioni, ma di scelte coerenti nel tempo. È un esempio da adattare alla nostra scala, mettendo ordine e responsabilità dove oggi prevalgono frammentazione e progetti isolati.
Che cosa cambia per le imprese di Palermo ed Enna? Con “Camera del Futuro” arrivano servizi self-service h24, sportello digitale con video, firme e pagamenti da remoto, assistenza guidata dall’assistente virtuale “Salvo” e processi più rapidi. Meno code allo sportello, più prevedibilità e un canale unico di relazione con l’ente camerale. È un salto di qualità che libera tempo alle aziende e rende misurabile la semplificazione attraverso tempi, tassi di completamento e soddisfazione degli utenti.
Da dove iniziare nella PA? Mappare i processi, formare le persone e fissare standard di interoperabilità. Solo dopo ha senso aggiungere nuove piattaforme. Ogni progetto dovrebbe dichiarare benefici attesi, tempi e indicatori di risultato, con rendicontazione pubblica. È la via per spezzare il doppio binario carta-digitale e riportare la tecnologia al suo scopo: semplificare la vita a chi lavora negli uffici e a chi, ogni giorno, quei servizi li usa davvero.
Semplificare davvero: oltre gli slogan
La giornata palermitana consegna un messaggio limpido: la semplificazione non è una promessa, è un mestiere. Chiede formazione, scelte di architettura e il coraggio di togliere ciò che non serve. Il confronto con l’Europa ci dice che il tempo è adesso e che i margini per recuperare ci sono. Progetti come “Camera del Futuro” mostrano che, quando si mettono insieme visione e pratica, il cambiamento produce effetti immediati su file, tempi e fiducia reciproca tra amministrazioni e imprese.
Da cronisti che seguono ogni giorno le frizioni della macchina pubblica, sappiamo che l’innovazione non tollera scorciatoie. La tecnologia mette la cornice, ma il quadro lo dipingono le persone. È lì che si gioca la partita evocata da Romano: costruire competenze nella PA per restituire ai cittadini servizi più giusti e, soprattutto, più semplici. Quando la semplificazione smette di essere promessa e diventa esperienza, la modernità non è più un racconto: è un’abitudine che funziona.