Uno scambio teso scuote i rapporti tra Santa Sede e Israele: le parole del cardinale Pietro Parolin sulla guerra a Gaza hanno spinto l’ambasciata israeliana presso la Santa Sede a una protesta formale, mentre Papa Leone XIV ha ribadito che il Segretario di Stato ha espresso la posizione vaticana.

Diplomazia sotto pressione
La nota diffusa dall’ambasciata di Israele presso la Santa Sede non lascia margini di ambiguità: l’intervista a Pietro Parolin sarebbe, “pur ben intenzionata”, capace di indebolire gli sforzi per chiudere il conflitto e affrontare l’ondata di antisemitismo. Nel testo si contesta la centralità delle critiche a Israele, ritenendo trascurato il rifiuto di Hamas di liberare gli ostaggi e di interrompere la violenza. È la fotografia di un attrito diplomatico che si riaccende, dentro una guerra giunta al secondo anniversario e ancora senza un approdo. Lo hanno riportato agenzie come ANSA e Adnkronos, che hanno citato direttamente la nota dell’ambasciata.
Nel comunicato una preoccupazione ricorre con forza: l’“uso problematico dell’equivalenza morale”, evocato a proposito del termine massacro, applicato tanto all’attacco del 7 ottobre 2023 quanto alla legittima difesa israeliana. La rappresentanza diplomatica insiste: non esiste simmetria etica tra uno Stato democratico e un’organizzazione classificata come terroristica. Si chiede che le dichiarazioni future tengano ferma questa distinzione, mentre il dossier ostaggi resta il punto che più lacera famiglie e opinioni pubbliche. Le stesse formulazioni sono state diffuse dalle principali testate italiane che seguono il Vaticano.
Le parole del cardinale, tra dolore e diritto
Nel colloquio con i media vaticani, Parolin ha parlato di “situazione grave e tragica” e ha ammonito sul rischio di assuefazione alla violenza. Ha riconosciuto il diritto alla difesa di Israele, richiamando però la bussola della proporzionalità. È un linguaggio netto, che ha definito la guerra a Gaza come una “carneficina”, mentre i dati forniti dalle autorità sanitarie locali indicano decine di migliaia di vittime palestinesi dall’inizio del conflitto. A queste parole Parolin ha affiancato la condanna esplicita dell’attacco del 7 ottobre e la richiesta del rilascio degli ostaggi. Il quadro è stato ricostruito da Reuters e da Vatican News.
Il cardinale ha anche rivolto uno sguardo severo alla comunità internazionale, giudicata impotente mentre la violenza continua. In più occasioni ha chiesto che le operazioni militari rispettino i civili e ha posto interrogativi sul senso di proseguire nel flusso di armi in un contesto in cui il costo umano cresce ogni giorno. È una linea di fermezza, ma incardinata in un realismo diplomatico: senza negoziato non esiste soluzione, solo una deriva di odio e vendette incrociate. Questa impostazione è stata riportata e contestualizzata nelle cronache internazionali.
Il richiamo del Papa e l’allarme antisemitismo
All’indomani della protesta israeliana, Papa Leone XIV ha liquidato con sobrietà le polemiche, spiegando che il cardinale “ha espresso bene l’opinione della Santa Sede”. Parole pronunciate durante il rientro a Roma da Castel Gandolfo, accompagnate da un pensiero doloroso per le vittime di questi due anni, dal 7 ottobre alla conta quotidiana di morti palestinesi. In parallelo, il Pontefice ha definito “preoccupanti” gli episodi di antisemitismo, sollecitando un annuncio di pace che passi per il rispetto della dignità di tutti. La cronaca di quelle frasi è stata riferita dall’agenzia ANSA.
Dalla tragedia dell’attacco di Hamas, costato la vita a circa 1.200 persone in Israele, alla devastazione nella Striscia di Gaza, dove le autorità locali indicano oltre 67.000 morti, l’appello della Santa Sede è tornato a stringersi su due punti: cessate il fuoco e restituzione degli ostaggi. La prospettiva è sempre la stessa: contenere l’odio, proteggere i civili, riaprire spiragli di dialogo. È un registro che i media internazionali hanno documentato con puntualità nelle ultime ore e negli ultimi mesi.
Visione politica e memoria degli impegni
Il riferimento alla soluzione dei due popoli in due Stati non è uno slogan di giornata. Nel 2015, con l’Accordo Globale firmato in Vaticano, la Santa Sede ha riconosciuto lo Stato di Palestina, definendo nel Preambolo principi legati al diritto internazionale, alla dignità e alla sicurezza per tutti. Quella cornice – indipendenza, sovranità, praticabilità di uno Stato palestinese che comprenda Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza – viene ripresa oggi come bussola, insieme alla necessità di una gerusalemme custodita nel suo valore universale. Documenti e approfondimenti vaticani hanno ricordato la portata di quell’intesa.
Nel frattempo, il riconoscimento della Palestina ha conosciuto nuove accelerazioni sulla scena internazionale, con governi europei che hanno annunciato il passo e una spinta diplomatica che, nelle sedi ONU, ha rimesso al centro la prospettiva dei due Stati come unica via praticabile. In questo contesto di pressioni e resistenze, si misura anche l’esigenza – richiamata dal Vaticano – di non lasciare sole le comunità civili intrappolate nella guerra. Le cronache recenti lo hanno sottolineato, con la Francia tra gli ultimi Stati ad annunciare il riconoscimento.
Il piano di Washington al centro del confronto
Nel suo ragionamento, Parolin ha fatto riferimento anche al piano promosso dal presidente Donald Trump per una tregua e la fine della guerra a Gaza, evidenziando l’esigenza che i palestinesi siano parte del processo decisionale. Il progetto in 20 punti, illustrato a fine settembre, prevede cessazione delle ostilità, rilascio degli ostaggi, ritiro graduale e una transizione verso una governance tecnica palestinese, con forte spinta agli aiuti umanitari. Il quadro è stato illustrato in conferenze stampa e analisi di testate internazionali che ne hanno ricostruito contenuti e implicazioni.
Mentre una nuova tornata di colloqui indiretti è stata avviata in Egitto, mediata da Il Cairo, Doha e dagli Stati Uniti, la discussione ruota intorno ai nodi più duri: cessate il fuoco permanente, assetti di sicurezza, ricostruzione e ruolo futuro di Hamas. Voci ottimistiche si intrecciano a cautele di sostanza: le posizioni interne al governo israeliano e le richieste di Hamas restano distanti, anche se spiragli vengono descritti dagli osservatori sul terreno. È il contesto che fa da sfondo all’intervista di Parolin e alla reazione dell’ambasciata.
Ostaggi, memoria e responsabilità condivisa
Nel quadro definito dal Segretario di Stato, la liberazione degli ostaggi israeliani è un’urgenza morale che non ammette ritardi. Le famiglie attendono da mesi notizie dei propri cari; alcune vite potrebbero essere ancora salvate, altre potrebbero trovare almeno sepoltura degna. In questi due anni, sia Papa Francesco sia Papa Leone XIV hanno moltiplicato appelli pubblici e incontri con i familiari, mentre il Vaticano ha ripetuto la propria disponibilità a favorire canali umanitari. Anche i recenti colloqui tra il Pontefice e il presidente israeliano Isaac Herzog hanno insistito su questo punto, insieme alla tutela dei civili.
Allo stesso tempo, Parolin ha ribadito l’ingiustificabilità dell’attacco del 7 ottobre, una violenza che ha colpito civili di ogni età, e ha messo in guardia dalla tentazione di scaricare colpe collettive su intere comunità. Combattere l’antisemitismo è un dovere non negoziabile; lo è allo stesso modo rifiutare la disumanizzazione dei palestinesi. Il baricentro è il diritto umanitario: protezione dei non combattenti, fine di punizioni collettive e di spostamenti forzati, riapertura degli spazi per il dialogo politico. È la grammatica minima per spegnere il fuoco e ricominciare a parlare.
Domande in primo piano
Perché l’ambasciata di Israele giudica pericolose le parole di Parolin? Perché le considera sbilanciate: nella lettura della rappresentanza diplomatica, l’intervista si concentra sulle responsabilità israeliane e trascura l’azione di Hamas e la sorte degli ostaggi, creando un’“equivalenza morale” ritenuta inaccettabile. Da qui l’allarme sul rischio di indebolire i percorsi negoziali e la richiesta che i futuri interventi distinguano con nettezza tra uno Stato che difende i propri cittadini e un gruppo armato che li colpisce deliberatamente.
Che cosa chiede esattamente il cardinale Parolin? Indica una rotta lineare: condanna del terrorismo, liberazione degli ostaggi, rispetto dei civili e stop alla spirale di ritorsioni. Invoca la proporzionalità nell’uso della forza, chiede più coraggio alla comunità internazionale e ripete che senza negoziato non c’è soluzione. Sul piano politico, rilancia la prospettiva dei due Stati, sostenuta da atti concreti della Santa Sede e da una parte crescente della comunità internazionale.
In che modo il piano di Washington incide sul quadro? Il progetto in venti punti ha rimesso in moto contatti indiretti, fissando un nesso tra cessate il fuoco, rilascio degli ostaggi, ritiro graduale e una gestione di transizione affidata a tecnici palestinesi. Ma resta da colmare lo scarto tra le richieste di sicurezza israeliane e le condizioni poste da Hamas. Per questo la trattativa oscilla tra speranze e diffidenze, e ogni parola pubblica pesa sul tavolo negoziale.
Perché la soluzione dei due Stati torna centrale proprio ora? Perché è l’unico orizzonte che promette diritti e sicurezza a entrambi, dopo anni di violenze e fratture. La memoria dell’Accordo Globale del 2015, il recente sostegno di vari governi europei al riconoscimento della Palestina e i richiami della Santa Sede compongono un mosaico politico e morale che, se sostenuto con atti coerenti, può aprire la via a un percorso realistico e inclusivo.
Una rotta editoriale: umanità, diritto, verità
Questa vicenda ci ricorda che le parole, quando le vite sono in bilico, pesano come decisioni. La protesta dell’ambasciata israeliana, la fermezza del cardinale Parolin, la puntualità di Papa Leone XIV nel richiamare dignità e pace: tutto converge in un punto essenziale, tenere insieme umanità e diritto. Non si tratta di simmetrie impossibili, ma di responsabilità concrete: proteggere i civili, liberare gli ostaggi, riaprire i canali della politica prima che l’odio diventi abitudine. È un compito che interroga tutti, istituzioni e opinione pubblica.
I fatti raccolti nelle ultime ore – dalle note ufficiali alle interviste, dai colloqui in Egitto alle prese di posizione nelle capitali – riportano al dovere di uno sguardo lucido. Non basta dire “è inaccettabile” e poi consentire che tutto continui uguale. Serve continuità nei gesti, verifica nelle scelte, coerenza tra obiettivi dichiarati e mezzi impiegati. È questa la cifra con cui, ogni giorno, scegliamo di raccontare il mondo: cercando il senso nelle pieghe della realtà, sottraendola all’abitudine e restituendola alla coscienza di chi legge.