Due anni dopo il 7 ottobre 2023, in Israele il ricordo scorre tra cerimonie sobrie e manifestazioni determinate. I familiari degli ostaggi riprendono le piazze, mentre in Egitto ripartono colloqui indiretti per uno scambio che potrebbe cambiare il corso della crisi. L’emozione resta intatta, la politica cerca un varco, la società chiede risposte.

Memoria che pulsa nelle strade
Nelle comunità del sud, dove il trauma è inciso nelle case e nei campi, la giornata si è aperta con momenti di raccoglimento dal tono essenziale. Ricordi, nomi, fotografie: segni che compongono una mappa intima del lutto e della resilienza. Nelle città, il passo è diventato corteo, soprattutto a Tel Aviv, dove la richiesta di verità e di un accordo sugli ostaggi ha assunto la forma di una veglia collettiva. I resoconti internazionali hanno descritto commemorazioni diffuse nei kibbutz del Negev e un grande raduno in serata in centro città, mentre la cerimonia nazionale è prevista dopo Simchat Torah, con calendario posticipato rispetto alle attese, come riferito dalla stampa estera.
Nel racconto che abbiamo raccolto sul campo e attraverso le fonti, torna un dato che non smette di pesare: circa 1.200 persone uccise nell’attacco del 7 ottobre 2023 e 251 ostaggi rapiti, numeri ripetuti e attraversati ogni volta da volti e storie. Oggi, mentre le cerimonie si susseguono, i familiari ricordano chi non è tornato e chiedono un patto che riporti a casa chi è ancora prigioniero. Le cronache del giorno segnalano un Paese in bilico tra ricordo e attesa, con commemorazioni indipendenti nei kibbutz e una partecipazione ampia nella capitale economica israeliana.
Le voci delle famiglie e la pressione politica
Nel corso della giornata, i gruppi dei familiari degli ostaggi hanno riacceso la mobilitazione, scegliendo luoghi simbolici e sensibili: strade, piazze, e in diversi casi le vicinanze delle residenze di esponenti pubblici. La richiesta è lineare, reiterata, urgente: un accordo che consenta la liberazione degli ostaggi attraverso uno scambio negoziato. Testimonianze raccolte dalla stampa israeliana in questi mesi hanno mostrato presìdi regolari davanti alle abitazioni di ministri e parlamentari e iniziative coordinate su scala nazionale, una strategia che nel tempo ha affiancato le manifestazioni di massa a Tel Aviv.
Il metodo è quello di una pressione capillare, che ricuce la protesta di piazza con la dimensione privata dei decisori. È una scelta che affonda nella convinzione che ogni ora conti, che un’intesa non debba essere rimandata, che la politica debba assumersi il carico intero della trattativa. Gli stessi network civici che hanno scandito gli ultimi mesi hanno annunciato giornate di “disruption” e nuove mobilitazioni coordinate, dentro un mosaico di eventi che tengono alta l’attenzione sul dossier ostaggi e sul calendario negoziale.
Un sud che vive sull’orlo
Sulle comunità a ridosso della Striscia di Gaza, il tempo non è mai tornato normale. Le sirene, i richiami alla prudenza, la mappa degli allarmi: tutto parla di una minaccia che scorre a intermittenza ma non scompare. Località come Netiv HaAsara sono entrate nel vocabolario pubblico della vulnerabilità già nel 2023 e, in più occasioni successive, sono tornate al centro delle cronache per l’attivazione dei sistemi di allerta e per lanci isolati di razzi, episodicamente intercettati senza conseguenze. Questo andamento diseguale e nervoso è stato documentato più volte negli ultimi anni.
La memoria di quel 7 ottobre resta un solco profondo nella vita di frontiera. Le ricostruzioni audiovisive e le testimonianze raccolte nel tempo hanno riportato l’eco di incursioni e di fughe verso i safe room, la paura cucita a gesti quotidiani che allora apparivano impossibili e oggi scorrono nei racconti con lucidità dolorosa. È in questo contesto che il lessico della sicurezza si intreccia con quello del lutto e della cura comunitaria, tra protocolli di difesa, ricostruzioni e il bisogno di una tregua che non sia un respiro breve.
Sharm el-Sheikh, una trattativa che prova a riaprire un varco
Mentre il Paese ricorda, al Sharm el-Sheikh Congress Center si torna a parlare di scambio tra ostaggi e prigionieri e di un percorso graduale per fermare le ostilità. I negoziati sono indiretti: Egitto e Qatar fanno da ponte tra le delegazioni, con il coinvolgimento statunitense su una proposta in più fasi che include ritiro militare parziale e pacchetti progressivi di liberazioni. Le cronache internazionali indicano un clima definito “positivo” all’avvio e una scansione di lavoro che potrebbe dilatarsi per giorni.
Nei resoconti che citano media legati alle istituzioni egiziane e reti arabe, la cornice del confronto rimanda a un “piano” sostenuto da Washington, attribuito alla leadership statunitense in carica, con una ventina di punti indicativi e un meccanismo per il rilascio graduale degli ostaggi. Da Doha arrivano segnali sulla definizione di una “roadmap” per i passaggi successivi; resta però aperto il nodo di lungo periodo: assetti di sicurezza, disarmo, governance e tempistiche di ritiro.
Dati, contesto e ferite aperte
L’orizzonte numerico, in giornate come questa, non è un elenco: è un avvertimento, una misura della sofferenza. Alla strage del 2023 seguì il rapimento di 251 persone; nel tempo la maggior parte è stata liberata, ma secondo aggiornamenti di agenzia restano in ostaggio alcune decine di persone e, tra queste, solo una parte sarebbe in vita. È una realtà che alimenta la mobilitazione e dà sostanza alla richiesta di un’intesa che non sia l’ennesima promessa sospesa.
Dall’altra parte della linea, la Striscia di Gaza ha contato, secondo le autorità sanitarie locali, oltre 67.000 morti in due anni di guerra, un bilancio contestato e dibattuto nei numeri e nelle responsabilità, ma che descrive comunque un’emergenza umanitaria vasta. Organizzazioni internazionali hanno mosso accuse pesanti a Israele, che le respinge rivendicando l’autodifesa e denunciando l’uso civile della forza da parte di Hamas. È un dibattito che echeggia nelle aule legali e nelle piazze, senza sciogliere per ora l’impasse politico.
Domande essenziali, risposte rapide
Quante persone furono uccise il 7 ottobre 2023 e quante rapite? Le stime più citate parlano di circa 1.200 vittime e 251 ostaggi rapiti in Israele durante l’attacco di Hamas.
Quante persone restano in ostaggio e qual è lo stato dei negoziati? Secondo aggiornamenti di agenzia, alcune decine sono ancora prigioniere; a Sharm el-Sheikh sono ripresi colloqui indiretti su un pacchetto che include scambi e misure di de-escalation.
Perché molte commemorazioni sono locali e non centralizzate? Per scelta di comunità colpite che preferiscono momenti propri di memoria e per un calendario nazionale posticipato, con una cerimonia ufficiale fissata dopo la festività di Simchat Torah.
Che cosa prevede, a grandi linee, la proposta discussa in Egitto? Una sequenza in fasi: ritiro militare parziale, scambio ostaggi-prigionieri, meccanismi di monitoraggio e passaggi successivi legati alla sicurezza e alla governance di Gaza.
Qual è oggi la situazione umanitaria a Gaza? Gravemente compromessa: le stime locali indicano oltre 67.000 morti, sfollamenti di massa e bisogni urgenti; i numeri sono oggetto di dibattito, ma l’emergenza resta evidente.
Uno sguardo che non si arrende
Il secondo anniversario non è solo una data: è un passaggio di responsabilità. Nel silenzio delle cerimonie, tra le richieste dei familiari e la diplomazia che riparte, la domanda è una: quanto tempo ancora? Il dovere di chi racconta è portare al lettore il peso e la misura di questa attesa, senza slogan. Finché la politica non troverà un varco praticabile, saranno le voci dei cittadini a indicare la rotta, tenendo insieme memoria, giustizia e futuro.