Una nuova indagine rivela quanto la soddisfazione professionale cambi da un capo all’altro dell’Italia, con le regioni di montagna a guidare la classifica e il Mezzogiorno alle prese con contratti fragili e timori occupazionali. Il divario è netto, e i numeri raccontano storie di entusiasmo e di fatica quotidiana.

Il panorama complessivo della soddisfazione professionale in Italia
Sono 12,2 milioni gli occupati che, stando all’ultima analisi condotta dall’Ufficio Studi della CGIA su dati Bes-Istat 2023, affermano di essere ampiamente appagati dal proprio impiego: si tratta del 51,7% del totale. Il campione ha valutato fattori come opportunità di carriera, stabilità contrattuale, distanza casa-lavoro, orari e interesse per le mansioni. Il risultato disegna un’Italia dove più di un lavoratore su due riesce a trovare equilibrio tra desideri professionali e realtà aziendale, un segnale incoraggiante che però non abbraccia in modo uniforme l’intero territorio nazionale.
Sbircia la Notizia Magazine, in collaborazione con l’agenzia Adnkronos, ha verificato attentamente ogni cifra, confermando la solidità della ricerca e l’attualità dei relativi scenari. Ne emerge un ritratto sfaccettato, che spinge a riflettere sulle strategie messe in campo da aziende e istituzioni per alimentare un benessere duraturo. Le realtà produttive sono chiamate a modellare percorsi di crescita più inclusivi e, allo stesso tempo, a ridurre i divari geografici che ancora permangono.
Vette di benessere: Valle d’Aosta, Trento e Bolzano oltre il 60%
La soddisfazione più elevata abita tra le cime alpine. In Valle d’Aosta il 61,7% degli occupati – circa 70mila persone – descrive il proprio lavoro con toni di apprezzamento. Subito a ruota seguono la Provincia Autonoma di Trento, ferma al 61,1% con 161mila lavoratori soddisfatti, e la Provincia Autonoma di Bolzano, che raggiunge il 60,5% grazie a 170mila occupati gratificati. L’altitudine, il tessuto economico flessibile e l’attenzione al capitale umano sembrano dare a questi territori un vantaggio competitivo che si traduce in entusiasmo professionale diffuso.
Al di sotto di questo terzetto di testa troviamo l’Umbria con un solido 58,2% di soddisfatti, il Piemonte al 57,1% – che in valore assoluto supera di poco il milione di persone – e infine le Marche con il 55,4%. L’allineamento di questi dati suggerisce politiche regionali attente alle esigenze degli occupati, capaci di mitigare le criticità legate alla distanza dai principali centri industriali del Nord.
L’Italia a due velocità: il Mezzogiorno fatica a sorridere
All’estremo opposto della graduatoria si collocano Calabria, Basilicata e Campania. In Calabria soltanto il 43,8% degli occupati – circa 245mila persone – si dichiara contento del proprio lavoro; in Basilicata la quota scende addirittura al 42,3%, pari a 96mila addetti; la Campania chiude il gruppo con un modesto 41,2% su 681mila lavoratori. Il ritmo lento dello sviluppo meridionale, sommato a scarsi margini di crescita interna, alimenta un senso di frustrazione che la pandemia e la transizione digitale hanno reso ancor più tangibile.
Queste regioni, pur ricche di capitale culturale e umano, pagano un pesante tributo alle carenze infrastrutturali e all’assenza di grandi poli industriali stabili. I giovani intravedono così scarse prospettive di avanzamento, mentre chi possiede competenze elevate è spesso costretto a puntare verso altri lidi. Lo scenario richiama alla mente una diaspora intellettuale silenziosa che, anno dopo anno, impoverisce ulteriormente il potenziale di crescita locale.
Precarietà cronica e lavoro sommerso: i dati che allarmano
Oltre alla minore soddisfazione, il Meridione registra percentuali elevate di contratti temporanei di lunga durata. In Calabria e Puglia il fenomeno tocca il 25,5%, mentre in Basilicata sale al 25,7%; in Sicilia arriva addirittura al 27,9%. La regione più virtuosa resta la Lombardia, con un contenuto 10,7%. Questi dati fotografano un mercato del lavoro dove la continuità contrattuale si fa eccezione e non regola, generando cicli di incertezza che rallentano consumi, investimenti e, in ultima istanza, la qualità della vita.
Non meno preoccupante è il lavoro irregolare: 19,6% degli occupati in Calabria, 16,5% in Campania e 16% in Sicilia operano fuori dai radar della legalità. All’estremo opposto, la Provincia Autonoma di Bolzano si distingue con un contenuto 7,9%. Il sommerso sottrae risorse al welfare e priva i lavoratori di tutele basilari, accentuando le distanze sociali tra Nord e Sud.
Timori, part-time involontario e smart working: sfide trasversali
Il senso di precarietà non si esaurisce nei contratti a termine. Nel 2023 ha dichiarato di temere la perdita del posto il 8,8% degli occupati lucani, il 6,4% dei siciliani e il 5,9% dei calabresi. Rassicurante il dato di Bolzano, dove soltanto il 2,4% confessa insicurezza. La percezione del rischio occupazionale, pur soggettiva, incide sul benessere psicologico e può tradursi in riduzione della produttività, minore propensione alla spesa e crescita di stati d’ansia diffusi.
Altro nodo critico è il part-time involontario. Tra chi lavora a orario ridotto senza averlo scelto spiccano Sicilia (14,8%), Sardegna (14,7%) e Molise (13,8%). Il primato positivo torna a Bolzano, fermo al 3,8%. Lo scenario cambia invece sul fronte dello smart working: il Lazio guida con il 20,9% di occupati che nel 2023 hanno lavorato da remoto, superando Lombardia (15,6%) e Liguria (14,9%). Maglia nera alla Puglia, ferma al 5,4%. La disparità riflette divergenze infrastrutturali e digitali che penalizzano soprattutto le aree più periferiche.
L’esercito degli scoraggiati: quando si smette di cercare
Il report CGIA evidenzia poi la quota di persone inattive che, pur non lavorando, rinunciano a cercare un impiego. Il primato spetta alla Sicilia, con un tasso del 32,6%. Subito dietro compaiono Campania (32,3%) e Calabria (32,1%). In controtendenza nuovamente la Provincia Autonoma di Bolzano, dove solo il 3,5% della popolazione in età da lavoro ha deciso di chiamarsi fuori. La scelta di non cercare più può celare scoraggiamento, necessità di cura familiare o mancanza di fiducia in un sistema ritenuto incapace di offrire reali opportunità.
Per Sbircia la Notizia Magazine l’elemento più lacerante non è solo economico ma anche sociale: l’inerzia di decine di migliaia di persone sottrae potenziale umano ai territori e alimenta un circolo vizioso in cui povertà e isolamento si autoalimentano. Invertire la rotta significa potenziare servizi di orientamento, sostegno alle competenze digitali e incentivi mirati alla creazione di nuovi posti di lavoro di qualità, soprattutto per i giovani.
La nostra riflessione
Le cifre, verificare in sinergia con Adnkronos, consegnano un quadro duale: cime alpine che eccellono per qualità del lavoro e regioni meridionali che inseguono stabilità e legalità. In mezzo si staglia una larga fascia di realtà intermedie, dove le imprese tentano di conciliare competitività e benessere ma scontano ritardi infrastrutturali e carenze di servizi. Le istituzioni dovranno puntare su investimenti mirati nell’istruzione, nello sviluppo tecnologico e nel sostegno alle famiglie per ridurre i divari.
Il fulcro del problema resta l’opportunità: opportunità di formazione, di contratti stabili, di rientro per chi è emigrato. Senza un piano condiviso che riduca la precarietà, valorizzi il lavoro regolare e sostenga forme di flessibilità sana, la soddisfazione professionale rischia di restare un traguardo riservato a pochi privilegiati. Da qui la nostra convinzione: non esiste benessere reale senza un Paese che avanzi compatto, regione dopo regione, verso una dignità professionale condivisa.
In sintesi: domande rapide
Quanti lavoratori italiani dichiarano oggi di essere soddisfatti del proprio impiego?
Secondo l’elaborazione dell’Ufficio Studi della CGIA, validata da Sbircia la Notizia Magazine insieme all’agenzia Adnkronos, sono circa 12,2 milioni, pari al 51,7% degli occupati. Dietro questa percentuale si nasconde una forte polarizzazione territoriale: dalle vette alpine, dove il gradimento supera il 60%, alle aree meridionali che faticano a sfiorare il 44%. Una cifra che invita a ragionare sulla qualità delle politiche del lavoro e sulla necessità di un riequilibrio strutturale tra le diverse regioni.
Qual è la regione con la minore incidenza di contratti precari di lunga durata?
La Lombardia si conferma la realtà più solida sotto questo aspetto, con solo il 10,7% degli occupati inquadrati in contratti a termine da almeno cinque anni. Tale risultato deriva da un tessuto industriale diversificato e da un mercato del lavoro caratterizzato da competenze elevate, innovazione e capacità di assorbire manodopera qualificata. L’esempio lombardo mostra come la combinazione tra investimenti privati, poli universitari di eccellenza e infrastrutture efficienti possa arginare la precarietà persino in contesti ad alta densità produttiva.
Perché il lavoro irregolare resta così diffuso nel Mezzogiorno?
Il peso dell’economia sommersa in regioni come Calabria, Campania e Sicilia – dove l’incidenza varia dal 16% al 19,6% – è prodotto di fragilità storiche: scarsa presenza industriale, insufficiente rete di controllo, bassi livelli di istruzione e, non di rado, pressioni della criminalità organizzata. Questi fattori si intrecciano generando un ecosistema in cui evadere le regole appare, agli occhi di alcuni, una scorciatoia per sopravvivere. Politiche di incentivazione al lavoro regolare, digitalizzazione dei processi e contrasto deciso all’illegalità sono i capisaldi per ridurre in modo concreto il fenomeno.